Esistono due tipi di film di guerra: quelli belli e quelli brutti. La
via di mezzo non esiste. Dire «si, non è
male uh…» non funziona: parlare della “guerra” è un terreno culturalmente,
socialmente ed eticamente molto delicato. O fai un film completamente
sbagliato, o fai capolavori. Salvate il
soldato Ryan, Black Hawk Down, Il Nemico alla Porte, Full Metal Jacket sono filmoni: con
intenti e finalità diverse, riescono nel comune intento di restituire il dramma
della Guerra.
E Fury?
La straordinaria potenza della pellicola con un grandissimo Brad Pitt,
risiede nella scelta di voler raccontare la Guerra, con la “G” maiuscola, senza
fronzoli, senza drammi spicci o volutamente esibiti per farti piangere. No.
Guerra è basta, nella sua drammaticità, nella sua crudezza, nel suo dolore.
Il team di militari destinato al carro armato Fury non hanno una
“missione” specifica, collaterale o fondamentale per la risoluzione del secondo
conflitto mondiale. La loro missione è quella di tutti i soldati in terra
tedesca: vincere la guerra!
Partendo da questa base narrativa, il regista David Ayer ha
possibilità di mostrare il “quotidiano” di un soldato, l’imprevedibilità della
vita di un soldato, soggetto a proiettili vaganti, a mine inesplose, a
bombardamenti improvvisi. Come pochi film dello stesso genere, Fury, riesce a gettare lo spettatore
nella sporcizia, nel sangue e nel fango della guerra, mantenendolo
costantemente in tensione, sul “chi vive?”, sempre con un orecchio teso a
qualunque rumore e un occhio attento ad ogni movimento, così come i soldati
protagonisti. Sebbene il rischio fosse elevato, non cade mai nel patetico,
neanche quando i “nostri” liberano un villaggio tedesco ed incontrano la popolazione
civile, o nel finale: non serve andare a pescare sentimenti “nobili” o
immortali, ma quelli umanamente umani. La guerra di Fury non è eroica, non è “semplicemente” drammatica, non è un
videogioco sparatutto, non neanche intimista, è la guerra per quello che ha
significato e, aihnoi, significa ancora adesso: inclemente, imprevedibile
fisicamente e psicologicamente dolorosa, in cui l’orrore è familiare,
quotidiano e non desta più stupore.
Tema spesso abusato nei film di guerra, ma qui, invece, reso asciutto
e doloroso, è la perdita dell’umanità dei soldati che, profondamente segnati
dal loro vissuto di militare, dimenticano che di fronte a loro ci sono altri
esseri umani, con le medesime passioni, le medesime paure e il medesimo
desiderio di porre fine al conflitto. Il film è, chiaramente, centrato sullo
schieramento americano, e, sebbene, il poco spazio dedicato a quello tedesco
(parlo di approfondimento narrativo), il finale (che non spoilero) restituisce
questa chiave di lettura.
Detto questo…
Girato in maniera assolutamente egregia! Anche qui vale il concetto di
cui sopra: niente fronzoli, niente virtuosismi, ma riprese asciutte,
coinvolgenti, che non mirano alla spettacolarizzazione, quasi a voler tendere al
documentarismo (cosa che, fortunatamente, non fa).
Anche il cast riesce a reggere tale impianto narrativi: Brad, eh
vabbè, è il Brad intenso di film come Babel
o Tree of Life, Logan Lerman riesce
ad abbandonare le faccette insopportabili di quell’offesa cinematografica che è
Percy Jackson, Shia LaBeouf sembra
quasi che davvero riesca a recitare (se non fosse per quell’occhietto lucido
perenne insopportabile), Michael Pena e Joe Shane-di-Walking-Dead
Bernthal fanno il loro dovere da spalla (anche se quest’ultimo è odioso e
str@#§o tale e quale alla serie sugli
zombie senza zombie).
Rischiavamo di non vederlo in Italia e sarebbe stato davvero una
grande perdita. Film che riescono ancora a raccontare il dramma della Seconda
Guerra Mondiale senza banalizzare o ripercorrere strade già viste, si contano
sulle dita della mano di qualcuno che ha giocato troppo con i petardi a Capodanno.
Consiglio personale: se siete genitori di figli che giocano a Call of Duty, non portate a vedere
questo film, si farebbe due ore di palle assurde parlando ad alta voce tutto il
tempo ed esulterebbe solo quando si vedono crani schiacciati da un carro
armato, e non è quello l’obiettivo del film, anzi, come genitore mi
preoccuperebbe. Storia vera.
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