Perché tutto il mondo sta osannando l’ultima fatica di Christopher
Nolan? Cosa spinge critici e pubblico ad elevarlo a capolavoro? Com’è possibile
che si contino sulle dita di un dito i detrattori della pellicola?
A cinema, ieri sera, ho trovato la risposta: perché è un filmone!
Senza se e senza ma.
E invece…
Beh, Nolan è riuscito in un compito non proprio facilissimissimo:
suggerire, come fece Spielberg con Salvate
il soldato Ryan, ai cineasti un modo alternativo di fare film di “guerra”.
Non sto parlando di trama o intreccio, neanche di inquadrature, parlo del modo
di narrare (visivamente e drammaticamente) eventi bellici.
Il film vive di due “nonostante”… Mi spiego meglio.
1. Nonostante sia un film in cui il mare è
onnipresente, è un film assolutamente asciutto (ha ha ha… ehm..). Non ci sono
fronzoli eroico-sentimentali, non ci sono patriottismi facili e rallenty con
bandiere in mano o gente che esplode. C’è solo la guerra: bombe, esplosioni,
sparatorie, gente che esplode, soldati che si accasciano a terra spaventati,
navi che colano a picco, aerei che precipitano. La Guerra con la “G” maiuscola
e la “UERRA” in maiuscolo.
2. Nonostante ci siano distese di sabbia, mare
aperto e campi lunghissimi fino all’orizzonte, è un film terribilmente
claustrofobico. Tu, piccolo spettatore seduto sulla tua poltroncina, si senti
soffocare, accerchiare, opprimere. La storia corale imbastita da Nolan trova
sempre il modo di “rinchiudere” i protagonisti dentro qualcosa: una nave, una
barca, la cabina di un aereo, persino lo stanzino delle derrate alimentari di
una piccola imbarcazione, diventano teatro e metafora degli eventi raccontati.
La guerra soffoca, il pericolo è ovunque, viene dal cielo come dal
mare, e tu, soldato, non puoi sfuggire in nessun modo. Spesso, nel film, le
situazioni limite si caricano di angoscia, non di quello che vivi, ma di quello
che potrebbe succedere.
Nolan sceglie, dunque, uno stile “documentaristico” (mi si passi il
termine) senza ricercare le normali esagerazioni filmiche o licenze drammatiche.
Il dramma deve essere quello che viene mostrato. Complice, infatti, è la
fotografia: non è virata, alterata, caricata per evidenziare il dolore, è “nuda
e cruda”.
In tal senso la meravigliosa colonna sonora di Hans Zimmer (Hans ti
amo!!!) acquista una doppia valenza narrativa: da un lato il suo essere
martellante, opprimente e lisergica, contribuisce a creare quel senso di
oppressione e angoscia che tutto il film ricerca, ma ha anche la capacità di “sparire”
all’orecchio dello spettatore senza invadere con trombette e percussioni
eroiche o temi ricorrenti e riconoscibili. La colonna sonora è un vero e proprio
accompagnamento alle immagini: anche quello che sembra essere il ticchettio di
un orologio, alimenta il senso del tempo ormai agli sgoccioli, che si sta
riducendo, del tempo che, per i soldati inglesi a Dunkirk, si sta
drammaticamente esaurendo.
La folta schiera di attori, più o meno noti, diventano burattini nelle
mani di Nolan che allestisce per loro un teatro di disarmante quotidianità
della guerra. I dialoghi sono ridotti all’osso perché, di certo, se ti arriva
una bomba addosso tu non è che ti metti a parlare o lanciare frasi fatte per
sembrare un eroe.
Ordunque, una prova riuscitissima quella di Nolan, così come di tutto
il cast e di chiunque abbia lavorato dietro a Dunkirk. Un film che ingabbia personaggi e spettatori quasi come se
fosse un thriller, che colpisce come un colpo di mortaio e che ti angoscia come
il rombo di un aereo nemico.
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