Lui si sveglia, esce da casa, si scontra con Lei, si intrigano, si
corteggiano, si amano, si sposano. Lui ha paura che lei lo tradisca, Lei è
incinta ma non sa come dirglielo per via della freddezza di Lui. Lui ubriaco le
mena un paetto, Lei scappa dalla Madre. Lui Sconvolto si arruola in guerra e ci
lascia le zampette, ma… Era tutto un sogno dell’ubriacatura di Lui che corre da
Lei, e si ameranno per sempre. Fine.
Ma quanto può essere banalotto un film così?!? Da uno a dieci,
guadagnerebbe il posto fuori dal concorso, in strada, sotto la pioggia.
Eppure… Un film così… È stato, forse, uno degli migliori film che
abbia visto da anni a questa parte! Perché?
Perché il nostro regista ungherese
Gyorgy Pàlfi, regista di altri due film prima di questo (Hukkle, che non ho ancora visto, e Taxidermia, le cui poche scene che ho visto mi hanno lasciato
perplesso, dovrò approfondire), ha fatto un personale, ma estremamente
condivisibile, inno d’amore al cinema, in tutte le sue forme e nelle sue
molteplici declinazioni. Tante volte ti ritrovi a dire: «oh, mo succede questo, dai, deve usare scene di Full Metal Jacket», e così effettivamente accade, a
dimostrazione che il nostro immaginario comune è fatto dalle medesime icone, ed
è su quelle che il regista vuole giocare. Il film vuole rielaborare le icone
cinematografiche, anche quelle più forti (come Neo di Matrix, Dracula di
Coppola, o Gene Kelly in Cantando Sotto
La Pioggia) e fa di tutto (riuscendoci) per restituirle allo spettatore in
forma contenutisticamente rimediata.
Ogni “inquadratura” di The Final
Cut è estrapolata da un altro film. Ad ogni “inquadratura” i personaggi
cambiano, una volta Lui è Martin McFly, Indiana Jones, Rick Deckard… Lei invece
passa da Rosemary di Rosemary’s Baby
a Rossella O’Hara di Via col Vento a
Sabrina di, beh, Sabrina. Lasciate
inalterate le scene prese, così come i dialoghi, l’unica cosa a cambiare, e a
fare da “collante” emozionale è la colonna sonora, rigorosamente famosa, presa da
qualche altro film (Momenti di gloria,
L’esercito delle 12 scimmie, Ritorno al Futuro, Matrix…) ma riproposte e anch’esse riconfigurate.
Il film è questo: una continua decostruzione, riconfigurazione,
decontestualizzazione delle scene di film famosi, rielaborate e giustapposte
attraverso un lungo e complesso lavoro di montaggio, attribuendogli “nuovo”
senso. Una scena per tutte? Lei, depressa e triste, è sotto la doccia e scivola
sconvolta sul fondo della vasca: il nostro regista ha utilizzato l’ultima sequenza
della famosissima scena di Psycho.
Ora, sappiamo tutti cosa succede no? Bene… Quindi Noi che abbiamo visto il film
sappiamo che la protagonista, in quella sequenza, è già morta. Pàlfi, invece la
decontestualizza e, giustapponendola con altre scene “famose” di tristezza
sotto la doccia, le da un nuovo contenuto.
Parliamo chiaro… Non è un qualcosa di propriamente “nuovo”, ma assume
una forma, se vogliamo, controllata o, per lo meno, strutturalmente organica.
Pensiamo al magico, vasto e terribilmente affascinante mondo degli youtubers:
molti prendono, rielaborano, rimontano, rifanno, ricostruiscono immagini
“altre” per dargli una nuova forma. Alla fin fine, è un sentimento tipico del
nuovo millennio quello della rimediazione delle forme e, soprattutto, delle
immagini. Pàlfi non fa altro che sistematizzare questa tendenza dell’internauta
in un corposo, variopinto e complesso film narrativamente coerente.
Si, a volte, magari, ti viene da dire «ma quanti film c’hanno le stesse scene, le stesse cose» e a volte
quasi sembra che The Final Cut voglia
rendere palese la banalità di alcuni “passaggi” o di alcune scene, ma non è
così: è un po’ come le note musicali, 7 sono, ma in base a come sono “montate”
tra loro ti danno Mozart o ti danno gli ABBA… Eh, beh…
Se vogliamo, è un film di nonsenso “linguistico”, dove per lingua
intendiamo lo strumento del comunicare del cinema, il montaggio. Il montaggio è
un montaggio nosnense, nel senso (aeh e che scioglilingua che sto a fa) che
cambia senso all’immagine, lasciandola però inalterata… Trentatrè trentini…
Arghhh…
Però è davvero così. Siamo abituati a certe immagini di film che
amiamo, o che odiamo, o che abbiamo appena visto. Sono scene riconoscibili
(magari non proprio tutti, sia chiaro, anzi…) e noi sappiamo da dove vengono.
Viste li, dotate di nuovo senso, acquistano “nuova” vita. Infatti, da questo
punto di vista, l’immedesimazione con la “storia” viene meno, anzi, è proprio
inesistente, perché non riusciamo a separarci dall’immagine forte che
conosciamo: Lui dopo il primissimo incontro cerca Lei nella folla, e vediamo
Indy (nel primo film), nella piazza affollata, alla ricerca di Marion rapita.
Cambia il senso dell’immagine. Ma il film non punta all’immedesimazione dello
spettatore, anzi, invoglia a metterla da parte in favore dell’estremo gusto per
la citazione.
Un gioco ed un esercizio d’amore per il cinema che abbraccia tutte sue
forme: dal cinema di avventura, a quello drammatico, erotico, romantico,
fantasy, a cartone animato, italiano, americano, francese, ungherese (mi sembra
il minimo), muto, in bianco e nero, a colori, recente, lontano.
Insomma… il CINEMA (tutto
maiuscolo) è il protagonista assoluto della pellicola, in tutti i suoi fasti,
in tutta la sua storia, il tutto il suo splendore.
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