30 novembre 2014

Intervista a Elena Casagrande: autostoppisti per Nerdopolis

Chi siamo? Dove andiamo? Qual è la droga dentro la nutella? Sono le domande immortali che, oh, anche viaggiando per Nerdopoli noi ci facciamo. Soprattutto quando becchiamo la serie Sucide Risk. No… La serie non tenta di rispondere a queste domande “umane”, ma riesce a dare una risposta valida per il mondo dei supereroi. Anche perché nel mondo di Sucide Risk i superpoteri esistono e le persone con poteri che ti decidono di fare? Ovvio! Diventare supercriminali! Scordatevi Spidey, Batsy, Cap-tuttod’unpezzo! No… Beh… Se io avessi i superpoteri, la prima cosa sarebbe fare una rapina in fumetteria per prendermi tutti gli Omnibus, le action figures e i volumoni-reneinvendita vari! Ma, ovviamente, non finisce mia qui… La serie, infatti, ti apre scenari impensabili per l’universo (o universi? No, niente spoiler stavolta) supereroistico, in un racconto sempre in crescendo che t’incolla alle pagine. Si, ma chi sono i creatori della serie? Il racconto stile noir moderno è partorito dalla mente dell’inglese Mike Carey, cioè Hellblazer, Ultimate Fantastic Four, X-Men, mica cacchi e magistralmente illustrato da Elena Spider-Man / Hulk Rosso Casagrande. E chi t’incontro durante il viaggio?




Cosa ti ha spinto a disegnare fumetti?

Io non avevo un progetto di diventare fumettista, da piccolina. Ho avuto sempre la passione di raccontare storie e, quindi, quando ero più piccola, disegnavo fumetti però di come passavo la giornata…


Al posto del diario segreto, il fumetto segreto?

Si esatto [ride]. Ho avuto sempre la passione del disegno, però di farne un mestiere non ne avevo idea, finché non ho fatto la Scuola Internazionale di Comics che mi ha aperto un po’ le porte sul mondo del fumetto in generale. Perché io leggevo solo manga, all’inizio. Quindi, conoscendo altri mercati, altri mondo ho detto “mah, forse ho qualche possibilità anche io”. E poi, sempre tramite la scuola, sono diventata assistente di un insegnante, David Messina. E grazie a questo primo lavoro ho avuto gli agganci per entrare nel mondo del fumetto americano. E da li, poi, è partito tutto quanto.


Quali sono i tuoi modelli artistici di riferimento?

Io ho avuto, ho e avrò modelli artistici di riferimento, penso, per sempre. Perché comunque non si finisce mai di imparare. Quando stavo a scuola ho cominciato con Risso, Mignola, sempre un po’, stile dark, bianco e nero… poi, ovviamente, gli stili si sono evoluti, quindi, adesso, vedo Tommy Lee Edwards, Carnevale, Andreucci… Ne sono talmente tanti, ogni volta che me li chiedono me li dimentico [ride]. Vabbè, sono infiniti. C’è sempre qualcosa davanti.

Tu hai lavorato per la IDW, facendo una serie di trasposizioni a fumetti di serie televisive. Com’è il passaggio da un medium televisivo a quello a fumetti? Quanto deve essere fedele? Non solo nello spirito della serie, ma anche a livello grafico.
Di base, devi partire con la somiglianza degli attori, quindi, fai sempre degli studi preparatori. Poi l’editor che, ovviamente, subisce le supervisioni della produzione televisiva e, a volte, anche il consenso degli attori stessi…


Ti hanno fatto “storie” a te?

Si, alcuni si [ride].


Possiamo fare un nome?

Jennifer Love Hewitt per Ghost Whisperer. Si lamentò perchè le avevo fatto il seno troppo grosso.


Ma la prendono in giro pure i Griffin per il seno grosso!

[Ride] Però, ecco, devi partire con la somiglianza dell’attore, io, come prima cosa, mi do l’obiettivo di  riprodurre l’atmosfera televisiva. Quindi, cambi di scena, luci, gestualità dell’attore, tipi di inquadratura…

Quindi cambia il linguaggio del fumetto? Si fa più vicino al cinema.
Si, si, sicuramente. Penso sia un linguaggio un po’ più statico, nel senso che non è tipo i fumetti dei supereroi dive hai tante visioni distorte, prospettive, è una cosa un po’ più regolare si rifà alla telecamera.


Tu hai lavorato anche su Cronache di Topolinia: Avalonia Special e su La stirpe di Elan. Che rapporto hai, quindi, con il fantasy?

Mi piace! Però finisce la [ride]. Nel senso che son state collaborazioni brevi, quindi, non ho avuto modo di lavorarci tanto su. È un genere che mi piace personalmente. Sono un fan del Signore degli Anelli e di varie ed eventuali, però, oltre a quelle esperienze non ho avuto altri approcci.


Ti chiedo questo perché, comunque, tu lavori con il fantasy: Spider-Man, Hulk, lo stesso Suicide Risk, non sono proprio realistici. Riformulo la domanda: che rapporto hai con il fantastico?

Ho un rapporto buono [ride]. Nel senso che mi piace che ci sia quel tocco di inverosimile, di fantastico, appunto, che da quel pizzico di entusiasmo verso qualcosa che non potrà mai accadere nel nostro mondo…


No… Io cerco sempre di farmi mordere da un ragno!

Oh, occhio [ride].


Eh, per mo solo un po’ di febbre ho avuto, niente poteri!

Parlando di ragni… Hai lavorato sia su Spider-Man che su Hulk Rosso per la Marvel. Che vuol dire confrontarsi con icone storiche del fumetto, icone pop della cultura?

Hai detto bene perché all’inizio ero emozionatissima, festeggiavo, offrivo da bere a tutti, «oddio lavorerò alla Marvel»… Poi, invece, è salita l’ansia da prestazione anche perché avevo a che fare con dei personaggi punto di riferimento per il mondo intero, quindi, pensavo sempre «sono altezza? Sto facendo bene? Cosa penseranno?». Quest’ansia, quindi, verso gli ultimi lavori che ho fatto ha prevalso e un po’ ne ho sofferto. Ma me ne sono accorta quando ho finito di lavorare con la Marvel e son passata ad un progetto gestito completamente da me, dove avevo più libertà d’azione, non avevo altri punti di riferimento e, quindi, ho detto «ho capito adesso la differenza».

Quindi è difficile lavorare con punti di riferimento così stabili?
Per me è stato difficile reggere il confronto, essere all’altezza. È stato bello però [ride].


Direi… Penso che tutti i disegnatori del mondo almeno una pagina per la Marvel la vorrebbero realizzare. Tu stai lavorando su Suicide Risk, sei la disegnatrice tranne che per un paio di episodi, e la serie racconta di un mondo in cui i superpoteri esistono, tema su cui la Marvel ci ha costruito un impero sopra. Tu e Carey avete scelto, invece, un’ottica diversa, quella dei superpoteri che comportano più super criminali. Perché avete scelto proprio questa chiave di lettura?

Ti racconto come sono stata approcciata al progetto. Mi contatta l’editor e mi fa «guarda abbiamo in ballo questo progetto scritto da Carey…» e quando mi ha detto “scritto da Carey” ho pensato «ok, sono qua», «… Che parla di questo poliziotto che vive in un mondo come il nostro, però è popolato da supercriminali che hanno superpoteri, non in calzamaglia o divise, ma hanno costumi fatti come se ce li dovessimo fare noi, quindi abbastanza verosimile». Infatti, da là sono partita per fare i costumi dei criminali che si vedono. Poi, andando avanti con la storia, invece, si scopre… Forse non te lo spoilero… Ma c’è un motivo dietro! Andando avanti si scopre che c’è un motivo per cui, queste persone, sono supercriminali e il punto di vista della storia cambia completamente e c’è una chiave di volta diversa. E tu, rileggendolo, noti tante altre cose.


È stato difficile inventare, sostanzialmente, dei nuovi supereroi?

No. È stato facile e divertente.


Non avevate paure di cadere ne “già visto”?

Guarda… E che non voglio fare spolier [ride]… Diciamo che, ad un certo punto, si capisce che ci sono due mondi…


Si, ci siamo arrivati. Noi lettori lo sappiamo!

… E la parte divertente è stata che i personaggi stanno in tutti e due i mondi. Però il secondo mondo ha quel tocco di fantasy di cui parlavamo prima. Potrebbe ricordare una cosa di già visto, ma è una cosa nuova e divertente da fare, da ricreare.

A questo punto la domanda… Che superpoteri vorresti avere? Se qualcuno venisse con la pennina…
Io vorrei essere tanto la Torcia Umana. Perché penso di avere un po’ di piromania dentro e…


Bòn! Gli estintori ci stanno, si?!?

[Ride] e poi il desiderio di volare… Ma non soltanto il volo banalotto…


Come Superman?

Esatto! Ma con il fuoco. Il fuoco mi ha sempre attirato.


Qual è la differenza, come disegnatrice, tra il fumetto americano e quello italiano? Non solo a livello di pratica lavorativa, ma a livello di linguaggio, di approcciarsi al fumetto.

Sicuramente si! Veniamo da due retaggi culturali differenti. A livello di disegno… Le basi sono uguali per tutti, l’approccio stilistico è diverso tra quello americano e quello italiano. Quello italiano, vabbè, la Bonelli [ride], è proprio un modo di narrare diverso. Anche per il fatto che la maggior parte delle storie americane si devono sviluppare in 20 pagine in confronto alle 94 della Bonelli. C’è proprio una narrazione diversa un approccio diverso ai dialoghi, alle movenze, ai personaggi, ai tipi di inquadratura. Non “opposto” però… Diverso!


E tu ti ritrovi meglio nell’approccio americano o in quello italiano?

Forse perché io conosco, quasi esclusivamente, quello americano… Nn ho mai lavorato per il fumetto italiano… Però sarebbe una sfida interessante! Perché parlando con i colleghi ho scoperto che ci sono proprio delle regole che devi seguire… Quindi è la sfida!

Non ti bastava la sfida della Marvel? Ora anche quella italiana?

E certo! Sempre! La sfida è un modo per crescere!

Quindi lasciamo Elena con un accendino in mano pronta alle nuove sfide fumettistiche e la ringraziamo per la gentilezza, la disponibilità e la simpatia… E poi perché ci ha lasciato anche un suo sketch, ovvio! Quindi ringrazio ancora l’Artista per le sue foto (sennò mica ci credete che ho incontrato Elena), Zio Edo e la Madama che mi permettono di incontrare gli autore e Batarman che è costretto a montare un video con me presente. E via! Proseguo nel mio viaggio per Nerdopolis… Lasciandomi alle spalle un incendio… Eh!?! Ma… Era dove ho lasciato Elena…

I pigri che vogliono ascoltare la mia suadente voce maschia, possono vedersi il video qui sotto.
 

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