18 ottobre 2015

The Final Cut: medaglia d’oro al montaggio estremo [Recensione]



Lui si sveglia, esce da casa, si scontra con Lei, si intrigano, si corteggiano, si amano, si sposano. Lui ha paura che lei lo tradisca, Lei è incinta ma non sa come dirglielo per via della freddezza di Lui. Lui ubriaco le mena un paetto, Lei scappa dalla Madre. Lui Sconvolto si arruola in guerra e ci lascia le zampette, ma… Era tutto un sogno dell’ubriacatura di Lui che corre da Lei, e si ameranno per sempre. Fine.
Ma quanto può essere banalotto un film così?!? Da uno a dieci, guadagnerebbe il posto fuori dal concorso, in strada, sotto la pioggia.
Eppure… Un film così… È stato, forse, uno degli migliori film che abbia visto da anni a questa parte! Perché?
Perché il nostro regista ungherese Gyorgy Pàlfi, regista di altri due film prima di questo (Hukkle, che non ho ancora visto, e Taxidermia, le cui poche scene che ho visto mi hanno lasciato perplesso, dovrò approfondire), ha fatto un personale, ma estremamente condivisibile, inno d’amore al cinema, in tutte le sue forme e nelle sue molteplici declinazioni. Tante volte ti ritrovi a dire: «oh, mo succede questo, dai, deve usare scene di Full Metal Jacket», e così effettivamente accade, a dimostrazione che il nostro immaginario comune è fatto dalle medesime icone, ed è su quelle che il regista vuole giocare. Il film vuole rielaborare le icone cinematografiche, anche quelle più forti (come Neo di Matrix, Dracula di Coppola, o Gene Kelly in Cantando Sotto La Pioggia) e fa di tutto (riuscendoci) per restituirle allo spettatore in forma contenutisticamente rimediata.
Ogni “inquadratura” di The Final Cut è estrapolata da un altro film. Ad ogni “inquadratura” i personaggi cambiano, una volta Lui è Martin McFly, Indiana Jones, Rick Deckard… Lei invece passa da Rosemary di Rosemary’s Baby a Rossella O’Hara di Via col Vento a Sabrina di, beh, Sabrina. Lasciate inalterate le scene prese, così come i dialoghi, l’unica cosa a cambiare, e a fare da “collante” emozionale è la colonna sonora, rigorosamente famosa, presa da qualche altro film (Momenti di gloria, L’esercito delle 12 scimmie, Ritorno al Futuro, Matrix…) ma riproposte e anch’esse riconfigurate.
Il film è questo: una continua decostruzione, riconfigurazione, decontestualizzazione delle scene di film famosi, rielaborate e giustapposte attraverso un lungo e complesso lavoro di montaggio, attribuendogli “nuovo” senso. Una scena per tutte? Lei, depressa e triste, è sotto la doccia e scivola sconvolta sul fondo della vasca: il nostro regista ha utilizzato l’ultima sequenza della famosissima scena di Psycho. Ora, sappiamo tutti cosa succede no? Bene… Quindi Noi che abbiamo visto il film sappiamo che la protagonista, in quella sequenza, è già morta. Pàlfi, invece la decontestualizza e, giustapponendola con altre scene “famose” di tristezza sotto la doccia, le da un nuovo contenuto.
Parliamo chiaro… Non è un qualcosa di propriamente “nuovo”, ma assume una forma, se vogliamo, controllata o, per lo meno, strutturalmente organica. Pensiamo al magico, vasto e terribilmente affascinante mondo degli youtubers: molti prendono, rielaborano, rimontano, rifanno, ricostruiscono immagini “altre” per dargli una nuova forma. Alla fin fine, è un sentimento tipico del nuovo millennio quello della rimediazione delle forme e, soprattutto, delle immagini. Pàlfi non fa altro che sistematizzare questa tendenza dell’internauta in un corposo, variopinto e complesso film narrativamente coerente.
Si, a volte, magari, ti viene da dire «ma quanti film c’hanno le stesse scene, le stesse cose» e a volte quasi sembra che The Final Cut voglia rendere palese la banalità di alcuni “passaggi” o di alcune scene, ma non è così: è un po’ come le note musicali, 7 sono, ma in base a come sono “montate” tra loro ti danno Mozart o ti danno gli ABBA… Eh, beh…
Se vogliamo, è un film di nonsenso “linguistico”, dove per lingua intendiamo lo strumento del comunicare del cinema, il montaggio. Il montaggio è un montaggio nosnense, nel senso (aeh e che scioglilingua che sto a fa) che cambia senso all’immagine, lasciandola però inalterata… Trentatrè trentini… Arghhh…
Però è davvero così. Siamo abituati a certe immagini di film che amiamo, o che odiamo, o che abbiamo appena visto. Sono scene riconoscibili (magari non proprio tutti, sia chiaro, anzi…) e noi sappiamo da dove vengono. Viste li, dotate di nuovo senso, acquistano “nuova” vita. Infatti, da questo punto di vista, l’immedesimazione con la “storia” viene meno, anzi, è proprio inesistente, perché non riusciamo a separarci dall’immagine forte che conosciamo: Lui dopo il primissimo incontro cerca Lei nella folla, e vediamo Indy (nel primo film), nella piazza affollata, alla ricerca di Marion rapita. Cambia il senso dell’immagine. Ma il film non punta all’immedesimazione dello spettatore, anzi, invoglia a metterla da parte in favore dell’estremo gusto per la citazione.
Un gioco ed un esercizio d’amore per il cinema che abbraccia tutte sue forme: dal cinema di avventura, a quello drammatico, erotico, romantico, fantasy, a cartone animato, italiano, americano, francese, ungherese (mi sembra il minimo), muto, in bianco e nero, a colori, recente, lontano.
Insomma…  il CINEMA (tutto maiuscolo) è il protagonista assoluto della pellicola, in tutti i suoi fasti, in tutta la sua storia, il tutto il suo splendore.

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